Uno sguardo alla giurisprudenza degli organi di controllo dei tre principali sistemi regionali di protezione dei diritti umani

Approfondimento n. 6/2021                                                            

La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli respinge le accuse per violazione del diritto all’equo processo mosse da un condannato a morte contro la Repubblica Unita di Tanzania

Con la sentenza del 26 febbraio 2021, sul caso Evodius Rutechura c. Repubblica Unita di Tanzania (Application No.004/2016), la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (“Corte”) ha respinto un ricorso contro la Tanzania, per la presunta violazione del diritto all’equo processo, ai sensi dell’artt. 7 par. 1 e 7 par. 1 lett a) e c) della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (“Carta”).

La vicenda prende avvio in Tanzania (“Stato convenuto”) quando, il 19 novembre 2008, l’Alta Corte di Mwanza condannava a morte il cittadino tanzaniano Evodius Rutechura per omicidio. La decisione veniva confermata con sentenza del 18 giugno 2010 dalla Corte d’Appello di Tanzania. Il 20 marzo 2015, il condannato chiedeva la proroga del termine per presentare la domanda di revisione della sentenza alla Corte d’Appello, la quale negava la richiesta l’8 giugno 2015, ritenendo le ragioni del richiedente prive di una buona causa, nonché carenti di una prospettiva di successo (par. 60). 

Con il ricorso, presentato alla Corte il 13 gennaio 2016, il ricorrente lamentava la presunta violazione del diritto all’equo processo, sostenendo che la Corte d’Appello, oltre a non autorizzare la domanda di revisione fuori tempo massimo, aveva negato il suo diritto di assistenza legale gratuita (par. 6, ii) ed effettuato una valutazione delle prove inadeguata, violando gli articoli 7 par. 1 e 7 par. 1 lett. c) della Carta. Lo Stato convenuto, d’altro canto, chiedeva che il ricorso venisse respinto per carenza di giurisdizione di merito, ritenendo che il ricorrente avesse invitato la Corte a sedersi come una Corte d’Appello (par. 23). Il resistente chiedeva, inoltre, che la domanda venisse considerata inammissibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e per non aver – il ricorrente – presentato domanda entro un tempo ragionevole, ai sensi della Rule 40 par. 5-6 del Regolamento della Corte [Rule 50 par.2, lett. e) e f) del Regolamento del 25 settembre 2020]. 

Dopo aver respinto all’unanimità l’obiezione di giurisdizione materiale dello Stato convenuto (ai sensi dell’art. 3 del Protocollo, di cui la Tanzania è parte dal 2006) e dichiarato l’ammissibilità della domanda, la Corte si è pronunciata nel merito respingendo tutti i motivi di ricorso e le relative richieste di riparazione. Lo Stato convenuto, sulla base di quanto dichiarato dalla Corte, ha fornito al ricorrente un’adeguata assistenza legale (par. 75) e garantito un processo equo e privo di errori giudiziari (par. 60 e 67). Per queste ragioni, la stessa Corte non ha riscontrato la violazione degli artt. 7 par. 1 e 7 par. 1, lett. a) e c) ed ha aggiunto che il ricorrente non ha dimostrato con prove adeguate la presunta violazione dei sui diritti (par. 65). 

Con la sentenza in commento, la Corte, pur riconoscendo i limiti alla libertà di movimento e accesso alle informazioni del ricorrente, poiché incarcerato (par. 48), fonda la sua decisione su ragioni prettamente processuali. La pronuncia, infatti, si limita a sottolineare la conformità della procedura interna al regolamento della Corte d’Appello della Tanzania (ex art. 66), senza tenere in effettiva considerazione la situazione di estrema gravità e irreparabilità della pena inflitta al ricorrente. La decisione, alla quale viene allegato un parere separato del giudice Blaise Tchikaya, invita a riflettere sulla necessità di condurre la Tanzania all’abolizione vera e propria della pena di morte, sebbene le esecuzioni capitali siano già ferme da anni.

Laura Gobbi

Studentessa del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle”


La Corte EDU molto prudente sull’insegnamento della religione nelle scuole:  il caso Papageorgiou e altri contro Grecia

Con la sentenza resa in data 31 ottobre 2019 nel caso Papageorgiou e altri c. Grecia, divenuta definitiva il 31 gennaio 2020, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito, la Corte) è tornata a pronunciarsi sulla delicata questione dell’insegnamento della religione nelle scuole. Con decisione unanime, la Camera ha condannato la Repubblica Ellenica per violazione del diritto di istruzione dei ricorrenti, così come sancito dall’art. 2 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Convenzione), interpretato alla luce dell’art. 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione).

La vicenda prende avvio nel luglio 2017, quando i genitori di due studentesse, frequentanti rispettivamente la scuola superiore di Milos e la scuola elementare presso l’isola di Sifnos, si rivolgevano alla Suprema Corte Amministrativa greca chiedendo l’annullamento delle circolari promulgate dal Ministero dell’Istruzione che definivano i programmi dei corsi di religione per l’anno 2017/2018. Le riforme, a loro avviso, non realizzavano un  approccio neutrale, critico e pluralista all’insegnamento e non rispettavano la loro libertà di coscienza religiosa e filosofica; essi ritenevano inoltre che le procedure di esonero dai corsi di religione fossero illegittime ex artt. 8 e 9 CEDU in combinato disposto con l’art. 14, nella parte in cui obbligavano i richiedenti a rilasciare una dichiarazione ufficiale in ordine alla non appartenenza dei figli al credo cristiano ortodosso, poi conservata nei registri scolastici e sottoposta alla valutazione del Preside. I ricorrenti chiedevano che il loro caso fosse esaminato con procedura d’urgenza, ma l’istanza veniva respinta e l’esame della questione rinviato più volte, fino ad anno scolastico ormai concluso.

Nel gennaio 2018, studentesse e genitori adivano la Corte con i ricorsi n. 4762/18 e 6140/18, lamentando la violazione da parte dello Stato greco degli artt. 8, 9 e 14 della Convenzione e dell’art. 2 del protocollo n. 1. Lo Stato convenuto, in risposta, eccepiva, tra le altre cose, l’inammissibilità del ricorso per mancato esaurimento dei rimedi interni.

I giudici di Strasburgo hanno innanzitutto dichiarato i ricorsi ammissibili, valutando ineffettivi i rimedi interni predisposti dallo Stato greco, per poi giungere alla condanna per violazione dell’art. 2 del protocollo n. 1, interpretato alla luce dell’art. 9 della Convenzione. La Corte ha motivato la propria decisione affermando che nonostante esista un ampio margine di apprezzamento in capo agli Stati nel determinare le misure da adottare per garantire la realizzazione di un effettivo pluralismo educativo, le procedure di esonero dai corsi di religione non possono comportare un onere eccessivo per i richiedenti. Nel sistema scolastico greco, i genitori erano stati costretti a rivelare aspetti sensibili della loro vita privata, cosa che, specie in comunità assai compatte dal punto di vista religioso quali quelle dei ricorrenti, in cui il rischio di stigmatizzazione risulta molto elevato, avrebbe potuto disincentivarli a richiedere l’esenzione. Accertata la violazione, la Corte ha pertanto condannato lo Stato convenuto al pagamento della somma di 8000 euro a titolo di equa compensazione per i danni non patrimoniali subiti dai ricorrenti.
La decisione si pone sul solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, avviato nel 2007 con la sentenza Folgerø e al. contro Norvegia, che ha visto la Corte censurare ripetutamente modalità di esonero dai corsi di religione ritenute eccessivamente onerose o lesive del diritto alla riservatezza. Ciò che non stupisce, peraltro, è che la Corte abbia preferito glissare sul contenuto dei programmi scolastici, concentrando tutta l’attenzione sulle procedure di esonero dal corso di religione ed evitando così di entrare nel merito delle scelte educative dello Stato membro. Ciò non fa che confermare un atteggiamento molto prudente da parte della Corte, che si muove spesso con eccessiva circospezione nell’ambito di questioni delicate quale quella oggetto del caso in esame.

Francesca Ceresa Gastaldo

Studentessa del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle”


La Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo condanna nuovamente la Repubblica Argentina per il mancato adattamento dell’ordinamento interno al diritto di appello

Con la sentenza del 20 luglio 2020 nel caso Valle Ambrosio y otro vs. Argentina (serie C n. 408) la Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo (“la Corte”) ha condannato la Repubblica Argentina per la violazione del diritto di impugnare una sentenza dinanzi ad un giudice o tribunale superiore ex. art. 8 par. 2 lett. h della Convenzione Americana dei Diritti dell’Uomo (“Convenzione”).

I fatti riguardano due cittadini argentini, Julio César del Valle Ambrosio e Carlos Eduardo Domínguez Linares, i quali venivano condannati il 23 dicembre 1997 dalla Nona Corte Penale di Córdoba a tre anni e sei mesi di reclusione per il reato di frode. La difesa presentava ricorso in cassazione, ma il 17 dicembre 1998 la Camera Penale del Tribunale Superiore di Giustizia della Provincia di Córdoba dichiarava suddetto ricorso formalmente inammissibile. Il 21 marzo 2000 la Corte Suprema di Giustizia della Nazione confermava l’inammissibilità del ricorso.

In data 10 luglio e 4 ottobre 2000 i ricorrenti presentavano ricorso alla Commissione Interamericana dei Diritti dell’Uomo (“Commissione”), la quale il 4 settembre 2018 deferiva il caso alla Corte. La Commissione richiedeva che la Corte riconoscesse la responsabilità internazionale dello Stato convenuto lamentando che i ricorsi in cassazione dei ricorrenti erano stati dichiarati inammissibili senza che si rivedessero le questioni di fatto o di valutazione probatoria degli stessi, in violazione del diritto di impugnare una sentenza tutelato dall’art. 8 par. 2 lett. h della Convenzione. 

Lo Stato convenuto rispondeva affermando che tali ricorsi erano invece stati dichiarati inammissibili perché non debitamente motivati e sufficientemente fondati.

La Corte, dopo aver confermato la sua giurisdizione sul caso e aver ritenuto soddisfatte le condizioni di ammissibilità previste dalla Convenzione, si è pronunciata nel merito condannando lo Stato per la violazione dell’art. 8 par. 2 lett. h della Convenzione, in relazione anche all’art. 1 par. 1 (obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla Convenzione) e all’art. 2 (obbligo di adattamento del diritto interno) della stessa.

La Corte ha sottolineato che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso era dovuta ad un’interpretazione restrittiva della normativa interna dello Stato che regolava i ricorsi in cassazione. Il Codice di Procedura Penale della Provincia di Córdoba, infatti, prevedeva all’art. 468 che il ricorso in cassazione venisse giudicato ammissibile solo nel caso si trattasse di una revisione di questioni di diritto, mentre escludeva la revisione dei fatti e delle prove su cui si basava la sentenza impugnata. La Corte ha dunque osservato che la garanzia di seconda istanza tutelata dall’art. 8 par. 2 lett. h della Convenzione deve essere completa e deve comprendere non solo l’eventuale revisione degli aspetti formali, ma includere anche fatti e prove.

Accertata la violazione, la Corte ha deliberato che lo Stato convenuto debba conformare il proprio sistema giuridico interno ai parametri stabiliti dalla sentenza sul diritto di appellarsi ad un giudice o tribunale superiore. Ha inoltre condannato lo Stato al pagamento di 20.000 USD in favore di ciascun ricorrente a titolo di equa riparazione.

Già nel caso Mendoza y otro vs. Argentina (serie C n. 260 del 14 maggio 2013) e nel caso Gorigoitía vs. Argentina (serie C n. 382 del 2 settembre del 2019) la Corte si era pronunciata sulla violazione da parte della Repubblica Argentina del diritto tutelato dall’art. 8 par. 2 lett. h della Convenzione, obbligando lo Stato ad adeguare il diritto interno alla normativa internazionale sui diritti umani. Nella sentenza in commento la Corte reitera tale obbligo, sottolineando come gli sforzi compiuti dallo Stato nel corso degli anni non siano stati sufficienti a garantire la tutela di tale diritto, e non perde l’occasione di ricordare che le norme sancite dalla Convenzione hanno carattere giuridicamente vincolante e devono andare ad integrare, od eventualmente modificare, il diritto interno degli Stati parte. 

Silvia Caglio

Studentessa del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle