Uno sguardo sulla giurisprudenza degli organi di controllo dei tre principali sistemi regionali di protezione dei diritti umani

1. La Corte di Strasburgo condanna l’Ungheria per violazione della libertà di espressione

2. La Corte Africana si pronuncia nuovamente sulla violazione del diritto di difesa nella Repubblica Unita di Tanzania

3. Resumen introductorio de la sentencia no. 401 (serie C) del 9 de marzo de 2020. Corte interamericanade de derechos humanos – Caso Noguera y otro vs. Paraguay 

Approfondimento n. 26/2020                                                                                                                                                                                                                                                   

1. La Corte di Strasburgo condanna l’Ungheria per violazione della libertà di espressione

Con la sentenza “ATV ZRT c. Ungheria” pronunciata lo scorso 28 aprile, la quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Ungheria per la violazione della libertà di espressione ex art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

I fatti al vaglio della Corte hanno avuto origine nel 2012, quando la società ricorrente, proprietaria del canale televisivo ATV, mandava in onda la notizia relativa ad una manifestazione che si sarebbe tenuta contro il partito politico “Jobbik” dopo che un suo membro, M. Gy., aveva sostenuto che i membri del Parlamento e del Governo di origine ebraica rappresentavano un rischio per la sicurezza nazionale. Nel riportare il fatto, il conduttore si riferiva al partito sopra indicato, utilizzando l’espressione “di estrema destra”. Alla società venne in seguito contestato di aver violato il “Media Act” ungherese per non aver trasmesso la notizia al pubblico in modo imparziale.

Dopo essere stata condannata ed aver esperito tutti i rimedi interni, la società ricorrente ha adito la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione e sostenendo che l’espressione utilizzata, oggetto di contestazione, facesse riferimento ad un termine comunemente utilizzato ed accettato in Ungheria per riferirsi a quel partito politico e non fosse pertanto manifestazione di alcuna opinione.

Il Governo ungherese sosteneva, invece, che l’ingiunzione fosse stata necessaria, dal momento che, all’interno di una società democratica, lo Stato ha il compito di proteggere il diritto delle persone di ricevere informazioni complete ed imparziali sulle questioni inerenti la vita pubblica e l’attualità  e di garantire dunque il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione. In altre parole, il Governo ha ritenuto che l’espressione utilizzata dal canale televisivo fosse qualificabile come “parere”.

Secondo la Corte EDU i “fatti” non possono sempre essere distinti dalle “opinioni” e la vaghezza dei termini impiegati nella legislazione può trasformare la legge in uno strumento per la soppressione della libertà di parola. Tuttavia, i giudici hanno ritenuto determinante, non tanto il contenuto legislativo della disposizione ungherese, quanto piuttosto le intenzioni della società ricorrente. La società ricorrente non avrebbe potuto, difatti, prevedere che il termine “estrema destra” sarebbe stato qualificato come opinione, né avrebbe potuto prevedere che l’uso di una simile espressione in un programma televisivo avrebbe violato il principio di imparzialità dei media. Pertanto, la restrizione posta alla società ricorrente nell’uso del termine impugnato viene ritenuta sproporzionata ed in contrasto con il diritto alla libertà di espressione e quindi non “necessaria in una società democratica” ai sensi dell’articolo 10, comma 2, della Convenzione EDU.

È interessante notare come la Corte di Strasburgo, con questa sentenza, contribuisca a delineare i complessi rapporti tra l’esercizio della libertà di espressione ed i limiti che ad essa possono essere imposti dai singoli Stati con le proprie leggi interne. In presenza di leggi non sufficientemente chiare, l’interpretazione della norma deve guardare alle intenzioni della parte  ed alla  consapevolezza o meno di quest’ultima di stare violando una disposizione.

Sofia Guerrieri

Studentessa del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle


2. La Corte Africana si pronuncia nuovamente sulla violazione del diritto di difesa nella Repubblica Unita di Tanzania

Con la sentenza resa in data 26 settembre 2019 nel caso Majid Goa alias Vedastus c. Repubblica Unita di Tanzania (ricorso n. 025/2015) la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (di seguito la Corte) ha condannato la Repubblica Unita di Tanzania per aver violato il diritto all’equo processo con specifico riferimento al diritto di difesa dell’imputato previsto all’art. 7 par. 1 lett. c) della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (di seguito la Carta).

La vicenda prende avvio in Tanzania quando, il 20 dicembre del 2005, la Corte distrettuale di Tarime condannava il cittadino tanzaniano Majid Goa (alias Vedastus) alla pena di 30 anni di reclusione per il rapimento di un minore di 12 anni. La decisione della Corte distrettuale veniva confermata dalla Corte Suprema di Tanzania in data 11 ottobre 2006, nonché dalla Corte d’Appello di Tanzania in Mwanza in data 13 agosto 2014, la quale da ultimo rigettava anche la domanda di riesame avanzata dal ricorrente.

Con il ricorso presentato in data 2 ottobre 2015 dinanzi alla Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, il ricorrente lamentava – fra le altre – la violazione del diritto all’equo processo con specifico riferimento al diritto di difesa ex art. 7 par. 1 lett. c) della Carta, sostenendo di non aver beneficiato di alcuna difesa legale gratuita in nessuno dei procedimenti penali promossi dinanzi alle corti nazionali. Lo Stato convenuto contestava la posizione del ricorrente affermando, per quanto qui di interesse, che la previsione in esame non contemplasse espressamente suddetto diritto e che lo stesso non avesse carattere assoluto, ma fosse al più subordinato ad una specifica richiesta da parte dell’imputato nonché alla disponibilità delle risorse finanziarie.

Dopo aver ritenuto la propria giurisdizione nonché l’ammissibilità del ricorso, la Corte si è pronunciata nel merito sostenendo – fra le altre cose – che la condotta dello Stato fosse effettivamente lesiva dell’art. 7, par. 1, lett. c), della Carta. La Corte ha infatti affermato che, benché suddetta disposizione non contemplasse espressamente il diritto di assistenza legale gratuita, quest’ultimo poteva esservi ricompreso in forza di un’interpretazione conforme al dettato dell’art. 14 par. 3 lett. d) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. Accertata la violazione, la Corte ha quindi condannato lo Stato convenuto al pagamento della somma di 300,000 TZS a titolo di giusto ristoro per il pregiudizio morale subito dal ricorrente.

La sentenza si inserisce nel solco dell’orientamento giurisprudenziale inaugurato con la pronuncia resa nel caso Alex Thomas c. Repubblica Unita di Tanzania (ricorso n. 005/2013), in forza del quale l’art. 7, par. 1, lett. c), della Carta riconosce il diritto all’assistenza legale gratuita a prescindere da una specifica richiesta in tal senso purché ciò assolva l’interesse della giustizia, che ricorre qualora l’imputato sia indigente e vi sia un addebito grave implicante l’inflizione di una pena particolarmente afflittiva. La decisione in commento pare tuttavia innovativa nella parte in cui sembrerebbe aggiungere che la garanzia di suddetto diritto non dovrebbe dipendere dalla disponibilità delle risorse finanziarie.  

Davide Di Virgilio

Studente del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle


3. Resumen introductorio de la sentencia no. 401 (serie C) del 9 de marzo de 2020. Corte interamericanade de derechos humanos – Caso Noguera y otro vs. Paraguay 

El 9 de marzo del 2020, la Corte Interamericana de Derechos Humanos condenó como responsable al Estado de Paraguay, dentro del polémico caso del “niño soldado”.

1. HECHOS. Este conflicto jurídico se ocasionó por la muerte en condiciones extrañas del joven Vicente Noguera, dentro de las instalaciones de un cuartel militar paraguayo donde prestaba su servicio. La relevancia del caso, surge porque aunque la muerte se produjo en 1996, y aunque se han adelantado de manera intermitente algunos procesos para esclarecer si se trató de una muerte por causas naturales o si por el contrario se trataba de una muerte violenta, con militares como actores, ninguno de esos procesos ha llegado a una etapa conclusiva, favorable a los intereses estatales.

2. ARGUMENTOS DE LAS PARTES. Desde el punto de vista fáctico, la accionante (María Noguera – madre de Vicente Noguera), sostenía que la muerte se había presentado porque los superiores de su hijo, lo habían maltratado físicamente y lo habían obligado a realizar esfuerzos sobrehumanos el día anterior a su fallecimiento. Desde el punto de vista jurídico, sostenía que las dilataciones y demoras injustificadas en las diferentes instancias judiciales, pero en especial, la imposibilidad del Estado de esclarecer las causas de la muerte, servían como prueba (indicio), para demostrar que inclumplió con sus obligaciones de garante frente al occiso y que de ese modo, se constituía una violación a sus derechos, violación que daría lugar a la responsabilidad internacional del Estado de Paraguay. En el mismo sentido se pronunció la Comisión, al afirmar que en la medida en que las investigaciones adelantadas por el Estado, a través de sus instituciones, no habían logrado aclarar las causas de la muerte, el Estado debía ser declarado como responsable. Por su parte, el Estado de Paraguay, argumentó ante la Corte que pese a que, en principio, se había basado en un informe pericial preliminar para negar su responsabilidad, posteriormente había aceptado dicha responsabilidad, a través de un Acuerdo de Solución Amistosa suscrito en el año 2011. (Acuerdo que no fue homologado por considerarse como parcial).

3. DECISIÓN DE LA CORTE. La Corte decidió declarar como responsable al Estado, en favor del difunto Vicente Noguera y de su madre, la señora María Noguera, en el primer caso por la violación al derecho a la vida (artículo 4), a la integridad personal (artículo 5) y a los derechos del niño (artículo 19); y en el segundo caso por encontrarse vulnerado el derecho a la integridad personal, a la garantía al debido proceso y a la protección judicial (artículos 5.1, 8.1 y 25) -Todos artículos de la Convención Americana-. Frente al difunto, el fundamento de la responsabilidad fue la falta al deber de garante que el Estado tenía y frente a su doliente, las dilaciones injustificadas y la ineficiencia del aparato judicial paraguayo frente al caso. Como consecuencia de ésto, la Corte accedió a algunas de las peticiones de la parte actora y ordenó pagar las indemnizaciones correspondientes, además de constreñir al Estado a implementar un plan de formación académica en Derechos Humanos a los miembros de sus fuerzas armadas.

4. COMENTARIO. Esta sentencia tiene importantes consecuencias para la comunidad latinoamericana, en lo social porque representa una victoria para los movimientos que se crearon entorno al caso (AFAVISEM); en lo político porque pone en evidencia problemas de funcionamiento en los órganos judiciales y en lo jurídico porque fija estándares mínimos de formación e instrucción militar y desarrolla la teoría de las sentencias como formas de reparación.

Marcos Gabriel Acevedo Moyano 

Studente del Master in “Tutela internazionale dei diritti umani Maria Rita Saulle